II

Tutto lo svolgimento dell’arte metastasiana è contraddistinto da un assiduo, ostinato impegno di poetica, di riflessione e di commisurazione dei propri strumenti espressivi al fluire e precisarsi dell’ispirazione poetica che troverà cosí, nel suo momento piú alto e pieno, la sua via di sgorgo piú sicura preparata dalle prove e riprove precedenti, anch’esse mosse dal duplice e concorrente impegno di poetica, di esercizio, di ispirazione e di concreta esigenza poetica.

Ma questo artista sorvegliatissimo, e pur tutt’altro che mosso da ragioni puramente sperimentali-tecniche, ha precisato i documenti della sua piú esplicita meditazione di poetica solo in anni piuttosto tardi e fuori del periodo piú intenso della sua ispirata attività. Sicché occorrerà premettere un avvertimento di cautela circa la loro utilizzazione à rebours, come illuminazione del cammino concreto dello scrittore, circa il maggiore irrigidirsi di certe sue aspirazioni alla «tragedia» vera e propria alla luce del suo piú tardo esercizio eroico-virtuoso, circa certe sue prese di posizione piú spiegabili entro il clima meno vivace e piú tradizionalistico-conservatore degli anni tardi da noi esaminato nel capitolo precedente.

Ma, con tutti questi limiti e precisazioni, la meditazione del Metastasio nei suoi due documenti fondamentali (l’Estratto della poetica di Aristotile e le note alla traduzione dell’Ars poetica di Orazio[1]), nelle osservazioni al teatro greco e nelle numerose lettere dedicate ad argomenti di poetica, si configura per lo piú come meditazione a posteriori rispetto all’opera realizzata, come giustificazione della propria poesia e della propria poetica attuata nell’organismo melodrammatico.

E possono dunque essere usate, come qui farò, a verifica delle fondamentali posizioni di poetica del Metastasio e del loro accordo con istanze arcadiche generali soprattutto in direzione di una giustificazione del proprio melodramma e dei propri ideali di poesia che non come documenti di autonoma meditazione estetica, di cui pure non mancano segni interessanti in un allargamento moderato del regolismo che va però, secondo me, soprattutto ricondotto entro l’opera di giustificazione del melodramma piú che chiaro «precorrimento» di moderne teorie estetiche[2]. Ché, alla fine, la stessa scelta dei due testi, Aristotele e Orazio, limita l’ambito della ricerca metastasiana in una zona sempre chiaramente classicistica (malgrado l’incidenza di letture piú moderne da lui usufruite nella stesura di questi suoi scritti) e caratterizza il suo atteggiamento di modernità tradizionale fuori di un piú arduo impegno di fondazione estetica originale vera e propria, precisa la sua intenzione di discutere ed esporre quei due testi illustri del classicismo italiano ed europeo in funzione della giustificazione della novità del suo melodramma non contraddicente le esigenze di una poetica tradizionale se intesa nella sua maggior larghezza.

Fondamentale risulta anzitutto la delineazione dei caratteri costitutivi del poeta in cui rifluiscono tipici elementi arcadico-razionalistici e quasi la riassunzione esemplare dell’analisi della propria natura ed esperienza: «In primo luogo, per esser atto a divenir poeta è necessaria una naturale acuta sensibilità all’armonia e al numero ed al metro: quale è quella che s’incontra non di rado in Italia fra i rustici giovanetti e le villanelle de’ contorni particolarmente di Firenze e di Roma; i quali, non sapendo per lo piú né men leggere, ed ignorando affatto qualunque metrica legge, cantan versi improvvisi su qualunque soggetto che lor si proponga: e con la sola guida dell’orecchio non ne trasgrediscono mai gli accenti e le misure. Operazione che a moltissimi uomini di distinto ingegno, e dottrina, e provveduti perfettamente di tutte le regole del metro, riesce difficile e mal sicura se non ricorrono a contar le sillabe su le dita.

È necessaria una naturale docilità, o sia attività del cuore ad investirsi facilmente delle varie umane passioni che si vogliono in altri eccitare: effetto che non può conseguirsi da chi non le sente prima in se stesso; come di sopra ha magistralmente Orazio insegnato:

... si vis me flere, dolendum est

primum ipsi tibi.

Poet., 102.

È necessaria una feconda vivacità di fantasia pronta a formarsi le immagini che, come dipinte coi colori in un quadro, vuole il poeta che gli altri veggano rappresentate nelle sue parole.

È necessaria quella sagace perspicacia, di cui vuole Aristotele indispensabilmente fornito ogni poeta: quella, dico, per la quale facilmente egli scopre certe particolari qualità, nelle quali si rassomigliano oggetti bene spesso fra loro totalmente nel resto diversi: onde egli artificiosamente scambiandogli, e valendosi dell’uno in vece dell’altro, possa formare quegl’ingegnosi translati e metafore, che sono il piú splendido distintivo del linguaggio poetico.

È necessaria una prontissima ubbidienza degli spiriti nel concorrere, secondo il bisogno, a mettere in moto ed a riscaldar la mente di quella specie di focosa agitazione che chiamasi estro, entusiasmo o furor poetico. Dall’impeto del quale avvalorate le facoltà della mente, si rende essa capace di quelle operazioni che a lei riuscirebbero impossibili se le tentasse tranquilla. Come impossibili ad ognuno sarebbero a passo lento quei salti, che nell’impeto del corso facilmente riescono.

Ma perché cotesto efficace utilissimo impulso, che chiamasi estro, non trascenda mai i limiti, pur troppo vicini, oltre de’ quali degenererebbe in pazzia, convien aver sempre presente l’aurea sentenza d’Orazio:

Scribendi recte, sapere est et principium et fons;

cioè:

Il buon giudizio è il capital primiero

dell’ottimo scrittor;

ed a tenore di questa star in guardia che non giunga mai l’estro a turbar ne’ suoi trasporti l’equilibrio della ragione, ma che ne senta sempre l’impero. Siccome un ardente, ma bene ammaestrato corsiere, nelle azioni piú focose, senza veruna repugnanza ubbidisce ad ogni minimo cenno del freno.

Or l’impeto e l’ardore, di cui l’estro si forma, e la placida tranquillità necessaria ai misurati giudizi della ragione, par che non possano esser prodotti che da principii opposti fra loro; e perciò difficilissimi a trovarsi congiunti in un soggetto medesimo: difficoltà donde forse nasce la rarità degli eccellenti poeti. Ai quali io non credo che sia mai raccomandata abbastanza l’attentissima cura di non abbandonarsi ciecamente all’arbitrio dell’estro: che, non ben regolato, è capace di trarci affatto fuor di cammino, rompendo quella catena, o sia connessione d’idee, la quale o espressa, o implicita almeno, convien pure che necessariamente si trovi (se vogliam che altri c’intenda) in tutto quello che da noi si parla o si scrive. I lettori e gli ascoltanti ci precedono con la mente per quella strada, verso la quale abbiam loro accennato d’incamminarci: e se noi, ingannandogli, altrove il nostro corso improvvisamente rivolgiamo, essi da noi e noi da loro vicendevolmente sempre piú allontanandoci, non siam poi abili a piú rincontrarci, se non se tardi, o non mai. E questa è una delle varie sorgenti di quella incomoda oscurità, che direttamente si oppone all’obbligo indispensabile di chi parla e di chi scrive: cioè quello di farsi intendere, tanto da Quintiliano raccomandato. Per lo piú avviene (dic’egli) che le cose che dagli uomini piú dotti si dicono e si scrivono, piú facilmente s’intendono perché la chiarezza è la principal virtú dell’eloquenza: e quanto altri è men fornito d’ingegno, tanto piú si sforza d’innalzarsi e diffondersi: siccome quei che peccano di piccola statura cercano di sollevarsi su le punte de’ piedi; ed ostentano ordinariamente maggior bravura i piú deboli. Plerumque accidit, ut faciliora sint ad intelligendum, et lucidiora multo quae a doctissimo quoque dicuntur: nam et prima est eloquentiae virtus perspicuitas, et quo quis ingenio minus valet, hoc se magis attollere et dilatare conatur: ut statura breves in digitos eriguntur, et plura infirmi minantur. Lib. II, cap. III De inst. orat. E pure non mancan di quelli che, in vece di fuggirla, cercano ed affettano, come nobile pregio e sublime, cotesta condannabile oscurità: non dissimili in ciò, a parer mio, a quei mal forniti mercatanti che han bisogno del fosco lume per facilitar lo spaccio delle loro merci imperfette»[3].

Gli elementi essenziali dell’uomo arcadicamente destinato alla poesia sono qui lucidamente raccolti: sensibilità musicale e ritmica che risponde anche alla capacità improvvisatrice tanto esaltata in Arcadia; docilità e attività del cuore (cosí acutamente graduata in «docilità» e «attività», fra spontaneità quasi mimetica e piú vera forza sentimentale, distinta a sua volta nel legame di una emotività personale e di una capacità di «eloquenza» comunicativa nel segno generale dell’espressione patetica); feconda vivacità di fantasia matrice di immagini anch’esse comunicabili (la comunicabilità è Leit-Motiv di tutto il discorso) e potere metaforico (sui cui limiti di chiarezza e ragionevolezza poi piú accuratamente si ritorna); fuoco dell’estro o entusiasmo. Ma subito insieme, in un incontro che è centrale in tutta la poetica arcadica sin dal Menzini (qui riportato nei suoi versi), il buon giudizio, la misura ragionevole: incontro di cui il Metastasio sente la difficoltà e l’apparente contraddittorietà (diversamente dai teorici piú banali), ma di cui insieme sente la necessità in relazione alla sua poetica che cosí fortemente punta sulla «catena» di idee-sentimenti-immagini e sulla chiarezza, esigenza poetica e morale ancora una volta connessa alla essenziale esigenza del comunicabile e del socievole che cosí energicamente presiede all’opera metastasiana.

Qualità che giustificano centralmente tanti giudizi critici e preferenze del Metastasio: il celebre giudizio sul Tasso[4] a cui poi piú segretamente lo legava (come ben vide il Momigliano in molte note del suo commento alla Liberata) lo sviluppo degli elementi melodici elegiaci, o il breve giudizio del Parini[5]: «Cotesto meritamente celebrato signor abate Parini, che trovo sempre eguale a se stesso, in tutti gli scritti che sono a me pervenuti; cioè non ricco solo di tutti quei pregi che distinguono l’insigne poeta, ma favorito dalla Natura di quell’ottimo giudizio, padre dell’ordine e della chiarezza, che non di rado si desidera nei primi luminari del Parnaso».

Dove interessa anche l’ultima aggiunta che si riconnette alla metastasiana scontentezza di fronte alla poesia dantesca e ariostesca[6], cosí spiegabile entro la dinamica della sua poetica e del suo processo di realizzazione poetica.

Mentre l’elemento della ritmicità e melodia naturale del poeta trova piú volte espressione nella esaltazione della stessa naturale tendenza degli uomini al canto e alla musica (e la ricerca del Metastasio è sempre ancorata ad una considerazione globale e media degli uomini, della natura umana, cosí come egli dissente da una poesia per tecnici e letterati, cucina di «cuochi per cuochi»), che ben giustifica dall’interno e il raccordo fra musica interna della poesia e suo prolungamento nella musica e canto veri e propri, e il rapporto di sviluppo fra recitativo ed aria (e piú intimamente il valore di tutto ciò come sfogo disacerbato delle pene, come catarsi che esalta e risolve le passioni e prepara la giustificazione piú interna del «lieto fine»): «Ed in fatti chi mai potrebbe dubitar dell’efficacia della musica su gli animi nostri? Chi mai non ne prova e non ne osserva gli effetti ed in se stesso e in altrui? Chi non s’avvede che la nostra violenta inclinazione la chiama a parte di tutte le azioni umane? Nel culto de’ sacri tempii, nelle adunanze festive, nelle pompe funebri e fin tra i furori militari vogliam sempre che abbia considerabil luogo la musica. La conoscono e se ne compiacciono le piú barbare, le piú selvagge nazioni: la sentono benché non atti ancora al perfetto uso de’ sensi, i piú teneri bambini, e cessan per essa da’ pianti loro: il reo nel tetro suo carcere, lo schiavo fra le catene e l’affanno del suo faticoso lavoro, cerca un sollievo, e lo ritrova nel canto.

Sente fra i pié sonarsi i ferri, e canta».[7]

Tutte le qualità del «poeta» metastasiano sono poi da considerare in relazione alla poetica del melodramma, come nuovo genere teatrale che ripristinerebbe (alla luce di un classicismo «moderno») le condizioni della tragedia greca musicale e cantata. E alla luce del predominante problema teatrale (Metastasio non è affatto un lirico che si avvale di uno strumento espressivo che trova sul suo cammino, ma, come vedremo, egli in certo senso se lo rinventa e se lo crea come necessario alla sua ispirazione personale storica[8]) vanno riviste le piú generali discussioni metastasiane sulle unità, sulle regole, sulla verisimiglianza, sul linguaggio e le particolari discussioni sulla liceità e validità del dramma musicato e cantato.

Il poeta per eccellenza è, per Metastasio, il poeta tragico (in accordo col suo maestro Gravina e con la generale aspirazione settecentesca al «piú perfetto dei generi»), il cui merito preminente è dal Metastasio spiegato alla fine dell’Estratto dell’arte poetica di Aristotile[9], in senso «antilirico» come quello «di soddisfare, scrivendo, all’indispensabile impegno di scordarsi affatto di sé medesimo, e di non parlare mai col proprio ma sempre col cuore altrui; arte che suppone una ben difficile conoscenza ed una non comune attività a potere assumere a suo talento il carattere, cioè le disposizioni dell’animo di un personaggio introdotto; arte che produce il piú squisito di tutti i piaceri, mentre rende visibili le diverse, ne’ diversi individui, interne alterazioni degli affetti umani; de’ quali, a seconda del bisogno, investito il poeta, ne investe l’animo de’ suoi spettatori, e seco dolcemente lo trasporta dove gli aggrada».

La complessità della rappresentazione del «cuore» e delle «alterazioni» degli affetti umani, e insieme la possibilità di una rappresentazione unitaria e varia entro un cerchio di tempo e spazio tanto minore (e meno pericoloso di deviazioni, di indugi, di dispersioni e languidezze) di quanto possa aver luogo nell’epopea, danno alla tragedia in senso metastasiano una posizione di primato basato sui tipici elementi del gusto arcadico-razionalistico. Che nell’aspirazione alla ricostruzione della tragedia greca nella sua unità melodico-espressivo-rappresentativa (donde la nota affermazione delle «arie» come diretti residui dei cori greci[10]) traduce realmente sue essenziali esigenze respingendo insieme, rispetto alla tragedia greca, le sue crudezze e l’eccesso di tragicità[11], difendendo contro Aristotele la liceità del «lieto fine»[12] legata acutamente ai «costumi presenti» (sicché poi «convien credere che, scrivendo oggi questo gran filosofo la sua Arte poetica, adatterebbe il predetto suo canone a’ costumi presenti e non a quelli di venti secoli addietro»[13]), e rilevando in Euripide (amato particolarmente perché piú tenero, piú semplice, piú affettuoso[14], cosí come fra i moderni l’amore del Metastasio va soprattutto a Racine[15]) l’essenziale modulo melodrammatico della fluttuazione e delle modificazioni del cuore[16].

Mentre, sul piano delle controversie contemporanee, la difesa del teatro contro il rigorismo moralistico del padre Concina[17] e del melodramma contro quello estetico dei teorici boileauiani francesi[18], quello regolistico degli aristotelici ortodossi tipo Lazzarini, e contro le accuse del Muratori[19], che porta ad affermazioni notevoli sulla possibilità di nuovi generi e su di una moderata libertà dalle regole[20], si configura soprattutto come difesa del proprio tipo di melodramma. Che il Metastasio ha creato nella consapevolezza della decadenza del melodramma secentesco e delle esigenze arcadico-razionalistiche, compiendo il miracolo di un salvataggio e di una riforma del melodramma, in gran parte alla luce delle stesse istanze che movevano le accuse dei teorici arcadici, che di quello fecero lo strumento espressivo piú centrale e congeniale della poetica attiva del primo Settecento: sicché poi lo stesso Muratori piú tardi doveva riconoscere la poesia del Metastasio come la maggiore del suo tempo[21].

Infatti il Metastasio, operando (secondo i suoi modi poco rivoluzionari, ma concretamente innovatori ed energici) dall’interno del gusto contemporaneo, e sviluppandone insieme le istanze classicistiche e «moderne», lavorando con la sua salda e cauta energia sul vivo di una sensibilità e di una storicità nei loro piú medi e diffusi valori (lontano quindi dalla spinta piú forte, ma piú irrealizzata di un Gravina, di un Conti, di un Muratori), scartò la soluzione tragica pura (cosí intrisa poi di autentici elementi melodrammatici), la via della tragedia storica-ideale su cui sterilmente si era impegnato il Gravina, e fece rifluire tutta l’esperienza psicologica e melodica della lirica arcadica in un organismo teatrale che sarà teoricamente non piú che un compromesso, ma che praticamente valse come via centrale della poetica dell’Arcadia matura.

Egli intese che il melodramma corrispondeva, proprio nel suo modulo costitutivo, a fondamentali termini del gusto e della sentimentalità arcadica (come ho indicato nel capitolo dedicato allo Zappi e alla Maratti) e, invece di rifiutarlo come facevano i teorici maggiori dell’Arcadia o di riformarlo alla maniera dello Zeno, piú arcaica e moralistica, si preoccupò di configurarlo in modo che le esigenze espressive e teatrali del suo tempo non soffocassero lo sviluppo della essenziale vena poetica e melodica e che la stessa musicalità e melodia (e tanto meno le condizioni spettacolari) non sopraffacessero le esigenze espressive e poetiche.

Far sí che i centri espressivi e poetici non fossero sopraffatti dalla musica, e che anzi questa agevolasse, attraesse e confortasse l’interna melodicità della soluzione teatrale del movimento patetico, fu la massima impresa del Metastasio, il risultato della sua inventività paziente e consistente e in tal senso, pur avvalendosi delle prove dello Zeno e di altri, egli operò ad un livello piú moderno, piú profondo e nuovo.

Anzitutto con la forte preoccupazione di capovolgere i termini del rapporto musica-poesia come di fatto vivevano nella realtà del melodramma tra fine Seicento e primo Settecento e come erano verificati e condannati dai teorici e riformatori arcadici.

Non la poesia deve essere ancella della musica, come era apparso reale e inevitabile al Gravina[22], al Crescimbeni[23], o al Martello (che piú scetticamente proponeva di lasciare il melodramma al suo inferiore piacere abnorme e alle sue imperfezioni, irregolarizzabile e irriformabile[24]), o al Muratori che, nel capitolo quinto del terzo libro di Della perfetta poesia, in un’ampia ricapitolazione delle accuse al melodramma, puntava insieme e globalmente sulla innaturalezza, inverosimiglianza, improbabilità di esso[25], sul suo ricorso a espedienti, equivoci, colpi di scena, sulla sua «effeminata tenerezza», sulla sua mescolanza disorganica di toni comici e tragici, ma soprattutto (al centro di considerazioni piú immediate sulla condizione di ignoranza dei musici e degli attori che lo trovano concorde con il Marcello[26] e poi con lo stesso Metastasio) sul fatto che, nello sviluppo storico del melodramma, «si è la poesia posta vilmente in catene, e laddove la musica una volta era serva e ministra di lei, ora la poesia è serva della musica[27]».

Orbene nella poetica metastasiana il rapporto si capovolge (ritornando intenzionalmente alla forma cui il Muratori accennava come originaria dei greci, in realtà riavvicinandosi all’intenzione dei creatori del melodramma[28] e superandola per volontà di complessità di azione), il primato della poesia è posto fuori di discussione e la musica deve servirne e sottolinearne l’espressività, appunto secondo l’ipotesi (condivisa e combattuta durante il secolo) di una situazione tipica della tragedia greca musicata e cantata in cui il Metastasio si creava un alibi classicistico e un sostegno stimolante e nobilitante per il suo melodramma cosí chiaramente moderno ed arcadico.

Partendo da questo appoggio e da quello della riforma dello Zeno (di cui però avvertiva i limiti intrinseci di rigidezza[29]), il Metastasio sostenne sempre (accettando cosí le accuse dei teorici arcadici al melodramma, ma considerandole valide solo contro il melodramma degenerato nella generale corruzione del gusto secentesco e riassorbendole nelle esigenze positive che egli voleva sviluppare nel suo «autentico» melodramma o dramma musicato) il primato della poesia e della espressione poetico-tragica fino alla costatazione estrema di una riuscita migliore dei suoi drammi se recitati senza musica, ma meglio ribadendo la sua posizione piú vera di un ausilio della musica dimostrata concretamente nei suoi rapporti con i musicisti.

Il dramma è scritto e pensato nella sua organicità e il poeta chiede, ordina al musicista l’ausilio di sviluppo e di sottolineatura musicale e melodica delle parole e dello stato d’animo che esse centralmente esprimono, in una posizione dello scrittore che è effettivamente molto diversa da quella di qualunque «librettista» di altre epoche.

Si rileggano, per aver chiara la posizione del Metastasio, certe sue lettere a musicisti, come quella del 20 ottobre 1749 allo Hasse, in cui, pur cortesemente dicendo di non voler limitare la libertà del musicista, egli indica precisamente i luoghi dove gli strumenti «possono giovargli» e il modo con cui la musica deve confortare il calore di un’«orazione già di per se stessa concitata» e non deve, invece, con la sua lunghezza «intepidire» l’orazione, «snervare» il recitativo. E agli stessi cantanti (in una posizione singolare di regista delle proprie rappresentazioni ben rilevata dal Varese) si estende la sua preoccupazione di scrittore che chiede ad essi fedeltà alla direzione espressiva fermata dal testo poetico, ne rifiuta e condanna acremente ogni tentativo di deviazione virtuosistica, ne sollecita la posizione di ausilio e la coerenza di espressività, comunicabilità emotiva alla forza patetica espressiva della poesia[30].

Tanto da giungere ad affermare, come estremo (magari contraddittorio ai suoi principi della naturale tendenza umana al canto e alla musica interi), il miglior risultato dei suoi drammi se recitati senza musica, e piú centralmente dichiara la sua poesia come capace di autonomia e di musica interna. Come può ben rilevarsi dalla nota lettera allo Chastellux[31] in cui si esprime insieme la tarda polemica metastasiana contro una musica che sempre piú tende (diversamente dalla condizione media dei musicisti adibiti ai suoi melodrammi nell’epoca piú chiaramente arcadica) a sopraffare il testo poetico con una propria autonoma espressività e considera il testo come puro pretesto di situazioni e stati d’animo consegnati direttamente alla fantasia creatrice del musicista. E se in realtà le cose erano diverse e anche in certa librettistica di fine Settecento si può avvertire un coerente bisogno di maggior drammaticità fuori del diagramma piú consueto del «melodramma melodrammatico»[32], un concorrere dell’opera del librettista e del musicista verso una nuova concezione drammatica, centralmente ci importa qui ben chiarire la volontà e la tensione operativa del Metastasio che, pur nei limiti di un compromesso inevitabile, se ne giovava per rinsaldare dall’interno (non per demandarla esternamente alla musica e al canto) la sua spinta espressiva e musicale essenziale che egli avvertiva e voleva capace di una propria «interna melodia», considerando l’integrazione del musicista non piú che un proseguimento e una sottolineatura delle sue direzioni espressive e poetiche teatrali autonome.

E ciò che vale insieme chiarire ulteriormente è il fatto che nella complessa e difficile opera del Metastasio regista, ordinatore delle proprie rappresentazioni teatrali e musicali, giustificatore della propria concezione del rapporto poesia-musica, campeggia visibilmente la centrale preoccupazione espressivo-patetica del poeta del «cuore» che a tutti i collaboratori della sua opera chiede «espressività», linguaggio del cuore, organicità espressiva, serietà e impegno espressivo e comunicativo volto a sollecitare piú che l’orecchio il cuore degli spettatori[33] e piú che con la «meraviglia» con il «piacere» di una creazione poetica coerente, organica, naturale riferita poi al gusto e alla umanità di un pubblico che è per il Metastasio non astratto e indeterminato, ma concreto e particolare: il pubblico della sua età di cui il poeta è interprete congeniale e cordiale[34].

Donde di nuovo la forza e il limite metastasiano di una fortissima contemporaneità e storicità fino al rischio di un sacrificio (in realtà apparente data l’omogeneità del Metastasio al proprio tempo storico) di proprie esigenze, inutili e fuorvianti se non comunicabili e accettabili. Popolarità e comunicabilità appoggiate, del resto consapevolmente, a due posizioni risolute di Metastasio: quella degli obblighi «precisi ed indispensabili del poeta» e quello del preminente giudizio popolare.

«L’obbligo principale di questo (come buon poeta) si è assolutamente e principalmente quello di dilettare; l’obbligo poi del poeta (come buon cittadino) è il valersi de’ suoi talenti a vantaggio della società, della quale ei fa parte, insinuando, per la via del diletto, l’amore della virtú, tanto alla pubblica felicità necessario. Or se il poeta non diletta, è cattivo poeta insieme ed inutilissimo cittadino. Tutti gli illustri esempi di virtú e le massime morali che avrà sparse inutilmente ne’ male accolti suoi fogli, seguiran la sorte di questi; ed in vece di correre applaudite fra le mani del popolo, ed istruirlo, saran condannate»[35].

Il giudizio del popolo poi è «di un peso indubitamente, molto piú considerato che altri non crede. Il popolo è per l’ordinario, il men corrotto d’ogni altro giudice. Non seduce il suo giudizio rivalità d’ingegno, non ostinazione di scuola, non confusione di inutili, di falsi, di male intesi o male applicati precetti, non voglia di far pompa di erudizione, non malignità contro i moderni, mascherata di idolatria per gli antichi, né alcun altro de’ tanti velenosi affetti del cuore umano, fomentati, anzi bene spesso prodotti dalla dottrina, quando non giunge ad esser sapienza. Legge ed ascolta il popolo i poeti unicamente per dilettarsi: non se ne compiace se non quando sente commuoversi: e benché s’inganni il piú delle volte quando pretende di spiegar le cagioni del suo compiacimento, non s’inganna perciò in lui giammai la natura, quando si risente all’efficacia de’ non conosciuti impulsi che l’han mossa»[36].

***

Queste esigenze di «popolarità», di «comunicabilità» (il teatro, dunque, al culmine di tale poetica) e, piú in alto, di espressività patetica e teatrale, dominano anche il problema metastasiano del linguaggio che (lontano da ogni immagine di pura facilità librettistica e di sciatteria improvvisatoria[37]) è orientato consapevolmente in tale direzione, da cui dipende la ricerca di una «modernità» che opera fra tradizione e uso, fra uso e «buoni autori», che si preoccupa di essere soprattutto efficacemente, espressivamente elegante, melodica e chiara[38].

Da qui l’incontro della diffidenza per il rigorismo cruscante[39] e dell’assiduo scandaglio nella correttezza efficace e propria, l’ideale (cosí arcadico, ma spinto a impasti piú eletti e insieme piú semplici) di una «colta ed elevata incantatrice favella che imita il discorso naturale»[40], superiore a quella comune per eleganza e interno canto, ma come quella spontanea e comprensibile[41], qualità queste ultime che il poeta tende a portare al loro grado supremo e paradigmatico.

Sicché, ripresa l’assidua volontà arcadica, denunciata di fronte ai francesi, di una distinzione del linguaggio poetico da quello prosastico, il Metastasio la fonda però su di un incontro di aulico e di popolare, di discorsivo e di musicale come forma suprema di comunicabilità e di espressività-impressività (l’impegno anche puntiglioso delle arie sentenziose che mirano a fissare la modesta saggezza arcadico-razionalistica in forme definitive e tesaurizzabili da tutti gli uomini, come di fatto avvenne nel Settecento e come continuò ad avvenire in piú ristretti cerchi di scolastica educazione nobiliare nell’avanzato Ottocento[42]).

Da qui (e cioè da tipici centri motori arcadico-razionalistici incarnati nella natura e nel calcolo metastasiano, ma contraddistinti da un’interna scelta entro le vie arcadiche) derivano l’antipatia per gli eccessi dell’«affettazione petrarchevole» e del «libertinaggio marinista»[43], la risoluzione di slanci di tipo guidiano, inerenti alla velleità grandiosa eroica, in forme di chiarezza e animata vivacità che usufruisce e supera insieme la lezione filicaiana, l’antipatia per i metri difficili e troppo tecnici e specialistici (la sestina[44]), per le forme metaforiche inverosimili ed oscure (donde la scarsa apertura anche a Dante spesso risentito in tal direzione[45]), la stessa fedeltà alla rima[46] come mezzo di «imitazione» melodica di discorso naturale e di sottolineatura di definizione e di sintesi espressiva.

E la stessa limitatezza del lessico metastasiano, tante volte osservata e prima rilevata come pregio un po’ prestigioso di saper dir tanto con tanta limitata varietà e poi piú fortemente contestata come sicura riprova di scarsa poeticità e di una concessione alle forme librettistiche e canzonettistiche, si giustifica piú storicamente (e ben tenendo conto della ripresa di una linea del linguaggio melodrammatico e teatrale) nella preferenza metastasiana per una espressione analitico-sintetica concentrata su alcuni temi fondamentali poetici, per la costanza e sobrietà di tono, per l’incontro di eleganza e semplicità e comunicabilità ad un pubblico vasto e medio: legata alle istanze razionalistiche e al bisogno della collaborazione-sollecitazione con una società non puramente letteraria e di una tensione collettiva nemica dell’eccesso immaginoso, avida di chiarezza e di sinteticità lucida, di situazioni tutte afferrabili e comprensibili, di una emotività intensa risolta in canto.

Sicché in quella effettiva limitazione c’è pure una forza e una via di singolare capacità riassuntiva-espressiva esercitata con mezzi volutamente selezionati che danno ai nuclei essenziali e poetici del patetico un risalto e una suggestione maggiore, caricano le parole tematiche di una loro forza concentrata e risolta in canto, fuggendo la dispersività e amplificazione secentesca e l’aridità e piattezza della prosa.

Certo quella costanza di tono, quella ribadita, insistita espressione di un linguaggio emotivo-melodico dovettero sembrare ben monotone poi a chi come Alfieri e Foscolo portava in sé un mondo poetico tanto piú complesso e vario, e l’immagine alfieriana dispregiativa del flauticello[47] e il suono di flauto di cui parlava il Foscolo[48] concorrevano in questa necessaria condanna che una civiltà nuova, tanto piú ricca e forte, doveva pronunciare sul mondo e sul linguaggio metastasiano. Ma, a voler vedere le cose storicamente, a voler rendersi conto della tensione espressiva di un’epoca, nei suoi limiti e nei suoi caratteri non solo negativi, quel linguaggio fluido e chiaro, semplice ed elegante, melodico ed espressivo era pure il risultato di una assidua tensione storica, artistica, né esso manca di una sua schietta capacità di ridestare in noi (quando ci si riporti a quella poetica, a quelle condizioni di vita e di gusto) ciò che esso voleva esprimere di poetico e di umano. E nella accettata immagine del flauto, quale finezza di gamme, quale capacità di far rifluire in quella voce morbida e lineare e cristallina una effettiva vita di affetti, di aspirazioni, di sentimenti poetici!

È, ripeto (come si vedrà dalla parte piú diretta allo svolgimento metastasiano), una apparente povertà e monotonia che son la mèta di un lungo esercizio complesso ed acuto, di una scelta orientata alle necessità prime di un mondo poetico-teatrale che di questi mezzi semplici ed eletti si serve per la sua piú vera espressione.

Si pensi al recitativo del Demetrio:

Andrò dal colle al prato

ma con Alceste a lato,

scorrerò le foreste,

ma sarà meco Alceste. E sempre il sole

quando tramonta e l’occidente adorna,

con te mi lascerà,

con te mi troverà quando ritorna.

Qui il sentimento idillico-patetico di una fedeltà amorosa sullo sfondo adiuvante della solitudine, illuminata dalla consuetudine cara del volger del giorno e del sole, condensa la sua forza espressiva mercé l’estrema semplicità ed eleganza del lessico, delle immagini, del ritmo che – a ripensar poi al lungo cammino di Metastasio fra istanze classicistiche-razionalistiche e riassimilazione della immaginosità e musica tardocinquecentesca e sin secentesca – si son qui risolte nella loro estrema rarefazione e pur conservano una lor densità di suono, di disegno, di emotività entro cui circola delicato e gentile (fino a certe immagini evidenti di fragilità e di trasparenza vitrea) il Leit-Motiv patetico nella sua misura perfetta e indimenticabile nel cerchio della finzione teatrale a cui quel linguaggio vuol aderire[49].

Né d’altra parte questo linguaggio poetico, tutto valido entro il suo cerchio storico, mancò di immettersi nella storia del linguaggio poetico italiano, costituendone (in forza della sua tensione poetica e della sua consolidata fermezza) un capitolo importante e non ignorabile, non solo per le reazioni che suscitò, ma per la sua scuola di discorso poetico trasferito dal teatro alla lirica e all’elegia narrativa, in una zona che va sino al Leopardi e che si basa soprattutto sulla forza dialogica e narrativa del recitativo (le arie appoggiarono di piú il «facilismo» provinciale) con il suo tessuto nitido e patetico, stringente e fluido, in cui l’eredità dell’Arcadia e del razionalismo si consolidano al suo livello piú alto passando direttamente o indirettamente attraverso il piú vario discorso poetico del Monti dell’Aristodemo, degli Sciolti al Chigi, dei Pensieri d’amore e recuperando, al di là della cesura barocca, il succo piú educato e sottile del tassismo e del guarinismo tardocinquecentesco.

Malgrado tutto, una via della tradizione italiana non spregevole e rifiutabile quando si pensi a come questa nel Settecento impostava certe sue esigenze di limpidezza e di chiarezza, di eleganza e di semplicità, di razionalità e di sensibilità in chiara funzione antibarocca e con la sua esigenza di comunicabilità piena, di responsabilità, di chiarezza, di comprensibilità.

Ma il Metastasio non fu solo un elaboratore di linguaggio, ché dietro quel suo tessuto linguistico, dietro i suoi moduli recitativi, dietro le parole della «perduta speranza», del «palpitare» del cuore, vibra un effettivo se pur limitato mondo poetico, una interpretazione poetica della situazione degli uomini nelle sue condizioni arcadico-razionalistiche ed è perciò che ci lascia sempre pensosi il giudizio leopardiano, pur nel suo dubbio, proprio là dove accomuna Metastasio ed Alfieri come poeti di «affetti», e proprio mentre svuotava il Monti di ogni realtà di sentimento poetico.


1 La prima opera fu compiuta solo nel 1773, la seconda, del 1749, fu però ripresa e perfezionata fra il 1768 e il 1773. Delle osservazioni sul teatro greco, pubblicate postume e concepite solo come pro-memoria a proprio uso e consumo, non conosciamo la data, ma sono certo anch’esse del periodo viennese.

2 Si veda in proposito il saggio di E. Scuderi, Metastasio teorico di poesia, in «Ausonia», 1957, troppo concessivo, e la mia scheda relativa ne «La Rassegna della letteratura italiana», 1957, p. 301 (e anche U. Pannuti, Il Metastasio e le tre unità, in «Giornale italiano di filologia», 1956, p. 356 ss., e la mia scheda ne «La Rassegna della letteratura italiana», 1957, p. 142 ss.).

3 Note alla traduzione dell’Ars poetica di Orazio, in Opere, II, pp. 1276-1278.

4 Lettera al Diodati, 7 aprile 1737 (Opere, III, p. 152). L’esaltazione del Tasso, del suo ordine e del suo «dilettevolmente commosso», non toglie però l’accusa arcadica ai «concettini» e ai suoi avvii prebarocchi.

5 Lettera alla Diletti Mattei, 28 luglio 1777 (Opere, V, p. 462).

6 Per il Furioso ritorna anche l’accusa della bienséance e del moralismo arcadico alle sue scurrilità e alla sua eccessiva «naturalezza».

7 Estratto dell’arte poetica di Aristotele, in Opere, II, pp. 976-977.

8 Anche per il Metastasio la scarsa considerazione, in tanta critica idealistica, per il teatro ha operato negativamente e occorre prender coscienza preliminare di questa generale svalutazione delle condizioni teatrali particolari se si vuol capire la poetica e la poesia di questo scrittore, come poi di un Alfieri.

9 Opere, II, pp. 1116-1117.

10 Opere, II, pp. 1019 e 1068.

11 Nelle Osservazioni al teatro greco si delinea un rapporto di Metastasio con i tragici greci che è molto lontano dalla posizione graviniana e poi soprattutto neoclassica circa l’esemplare perfezione greca (anzi sembra spesso implicare una polemica con tutta l’esaltazione neoclassica, anche se il capro espiatorio è soprattutto il Brumoy), messa piú volte apertamente in dubbio alla luce del gusto arcadico-razionalistico. Si ricordi almeno un aperto attacco al gusto attico (Opere, II, p. 1151) ché sopportando e anzi applaudendo la «scostumatezza» di Aristofane Atene «non conferma la finezza del discernimento e la delicatezza del gusto a quella da noi attribuita ecc.»; o la continua ironia sull’«aurea semplicità naturale» greca (ad es. di certe parlate «sconvenienti» dell’Andromaca di Euripide che non si può «disapprovare, se piaceva ai greci, che facevan cosí belle statue», Opere, II, pp. 1137-1138). Né Metastasio accetta, persuaso della validità del gusto proprio e del proprio tempo, le giustificazioni di tipo storicistico di un gusto che troppe volte offende la bienséance, il decoro, la delicatezza, la verisimiglianza, la proporzione, anche a causa di uno stile «ritorto e figurato all’eccesso» (Opere, II, p. 1121), di eccessi lirici (ivi., p. 1120): notazioni di stile, queste, che, a contrario, convergono nella definizione della poetica metastasiana in cui il classicismo è subordinato nettamente ai criteri arcadico-razionalistici e rococò di delicatezza, di tenerezza, di lucidità, di convenienza morale e razionale, in una medietas che, in genere, si chiude di fronte alla grande poesia immaginosa ed ardita e reagisce favorevolmente di fronte a forme piú patetiche ed eleganti.

12 Opere, II, p. 1072.

13 Opere, II, p. 1072.

14 Lettera all’abate N.N., 16 giugno 1775 (Opere, V, p. 344). La lettera riguarda il paragone tra Sofocle ed Euripide.

15 V. lettera a Mastraca, 21 marzo 1739 (Opere, III, p. 163).

16 Osservazioni sul teatro greco, Opere, II, pp. 1140-1141, dove si esalta il «superior talento drammatico» di Euripide sia nella «sospensione» degli spettatori, nella «continua fluttuazione dell’animo» di personaggi come l’Agamennone dell’Ifigenia in Aulide, sia nell’«artificio col quale si succedono i timori e le speranze».

17 V. lettera al fratello, 15 gennaio 1753, Opere, III, p. 782.

18 V. lettera al Calzabigi, 16 febbraio 1754 (Opere, III, p. 899) e poi altre lettere nel vol. IV, p. 196, p. 791, e nel vol. V, p. 252.

19 Estratto dell’arte poetica di Aristotile, in Opere, II, p. 994.

20 Come avviene per le commedie «lacrimose», v. Opere, II, p. 992.

21 In una lettera al Riva, del 27 gennaio 1735 (Epistolario, VIII, Modena 1905), il Muratori conclude un elogio della Clemenza di Tito (pur fra qualche riserva circa l’intreccio che ha qualcosa di «outré» e di inverosimile) con questa recisa conclusione: «Insomma la conclusione si è, che io non conosco oggidí poeta, che possa pretendere uguaglianza con cotesto felicissimo ingegno». Una precedente lettera al Riva del 14 marzo (Ep., VII) definiva il Demetrio «un capo d’opera de’ sentimenti, per le ingegnose ariette, per la mirabile facilità a dire quanto egli vuole in rima. V’ha dei pezzi che sorprendono». E ancor prima, in altra lettera allo stesso, del 28 novembre 1731, lodava del Metastasio soprattutto «una mirabil facilità a spiegar tutto con sublimità, con chiarezza e con ubbidienza beata di tutte le rime». Non occorrerà insistere sull’aderenza di questi elogi alle piú ambite mète della poetica arcadico-razionalistica.

22 Si veda del Gravina il paragrafo XX del trattato Della tragedia. Il Gravina nel melodramma vedeva «meccanicità», amore «chimerico» (con una prevalenza che andava a scapito di «ogni espressione di altro costume e di altra passione», limitazione dell’«infinita varietà dei casi umani») e insieme asservimento della poesia alla musica e alla scenografia.

23 Il Crescimbeni non vuole addirittura parlare del melodramma perché privo della regolarità tipica della tragedia lavorata al «tornio aristotelico», per il «guazzabuglio di personaggi» che lo Zeno aveva almeno districato e semplificato (Istoria della volgar poesia, ed. 1730, VI, p. 107).

24 Del teatro antico e moderno, Roma 1715, pp. 158-160. «Una cosa è da condannare, ed è il tuo giudicio, e di tutti quelli che intervengono al melodramma, con l’erronea presunzione che la poesia faccia in esso la prima figura».

25 Della perfetta poesia, Milano, 1820, III, pp. 65-67, che mettono in chiaro, con movimento gustoso di parodia indignata, l’assurdità della situazione melodrammatica dal punto di vista del razionalismo arcadico (e, se si vuole, non solo di esso): «È egli mai verisimile per la gente che una persona in collera, piena di dolore e di affanno, o narrante seriamente e daddovero i suoi affanni, possa cantare?... Ma che piú ridicola cosa c’è di quel mirare due persone che fanno un duello cantando? che si preparano alla morte o piangono qualche fiera disgrazia con una soave e tranquillissima arietta? che si fermano tanto tempo a replicare la musica e le parole di una canzonetta, allorché il suggetto porta necessità di partirsi in fretta e di non perder tempo in ciarle?». Naturalmente le accuse degli arcadi trovano un terreno tanto piú propizio nel melodramma secentesco sovraccarico di elementi spettacolari, impostato su contrasti e mescolanza di toni comici e tragici, su colpi di scena e avventure senza fine, di cui possono essere esempi Il pastor regio di Ferrari della Tiorba o i melodrammi dell’Aureli.

26 Per il Marcello rimando alla mia scheda riportata in questo volume. Sulla discussione intorno al melodramma si vedano R. Giazotto, Poesia melodrammatica e pensiero critico nel Settecento, Torino 1952, e la relativa recensione di M. Manciotti, ne «La Rassegna della letteratura italiana», 1954, p. 267 ss.

27 Op. cit., p. 58. Solo nell’ultima parte del capitolo affiora un margine di concessione simile a quella del Martello, con una volontà di riforma parziale del melodramma ridotto a forma piú verosimile ed organica, ma pur sempre fasciato alle sue condizioni di componimento marginale nel raggio della riforma arcadica, ché in esso, con le parole e con i versi, si serve «alla musica, giacché in siffatti componimenti essa principalmente si cerca e si approva», diversamente dalla vera tragedia e commedia senza musica in cui la poesia è «non serva, ma regnante» (pp. 79-80).

28 Nel Rinuccini, nel prologo della Euridice, parla la «tragedia», mentre poi in melodramma di pieno Seicento (ad es. nella Favola di Orfeo dello Striggio) nei prologhi parlerà la «musica». Per l’origine poetica del melodramma si veda il finissimo saggio di L. Ronga, La nascita del melodramma dallo spirito della poesia, in Arte e gusto nella musica, Milano-Napoli 1956.

29 Sullo Zeno si veda la lettera a G. Bettinelli (10 giugno 1747, Opere, III, p. 305 ss.), che difende (senza accusare lo Zeno) i propri personaggi ricchi di contrasto. L’elogio della funzione storica dello Zeno è invece nella lettera al Fabroni del 7 dicembre 1767 (Opere, IV, p. 585) ed è molto importante per la storia metastasiana del melodramma fra ’600 e ’700: «quando mancasse al signor Apostolo Zeno ogni altro pregio poetico, quello di aver dimostrato con felice successo che il nostro melodramma e la ragione non sono enti incompatibili, come con tolleranza anzi con applausi del pubblico parea che credessero quei poeti ch’egli trovò in possesso del teatro quando incominciò a scrivere, quello, dico, di non essersi reputato esente dalle leggi del verosimile, quello di essersi difeso dalla contagione del pazzo e turgido stile allor dominante, e quello finalmente di aver liberato il coturno dalla comica scurrilità del socco, con la quale era in quel tempo miseramente confuso, sono meriti ben sufficienti per esigere la nostra gratitudine e la stima della posterità».

30 Cfr. lettere al Farinelli (1 agosto 1750, Opere, III, p. 555) e al Santoro (26 marzo 1764, Opere, IV, p. 350) in cui il Metastasio apertamente polemizza con i cantanti disobbedienti e presuntuosi (di un’epoca – si noti – ormai di crescente dissenso con gli sviluppi della musica e della pratica del canto) che «vergognandosi di assomigliarsi agli uomini, de’ quali prendono il nome, anelano unicamente di gareggiar con le calandre, coi zufoli e coi violini».

31 15 luglio 1765 (Opere, IV, pp. 938-999).

32 Si può vedere ad esempio il testo dell’Antigone del Coltellini musicata dal Traetta. Del resto la storia della librettistica settecentesca è tutta da fare e da legare allo sviluppo delle poetiche settecentesche. Sarà chiaro ad esempio che l’Ascanio in Alba del Parini ha un’impostazione neoclassica assai lontana dai moduli metastasiani, mentre i libretti dell’opera «buffa» portano diverse cariche di linguaggio comico-realistico che andrebbero ben valutate. Si veda intanto lo studio, troppo però solo sociologico, di E. Battisti, Per un’indagine sociologica sui librettisti napoletani buffi del Settecento, in «Letteratura», 46-48 (1960), p. 114 ss., e la mia scheda ne «La Rassegna della letteratura italiana» 1961, p. 187.

33 Estratto dell’arte poetica, Opere, II, p. 1089.

34 Estratto dell’arte poetica, Opere, II, p. 1091.

35 V. lettera al Santoro cit., Opere, III, p. 350.

36 V. lettera al Mastraca (28 febbraio 1739, Opere, III, pp. 181-182) in cui il Metastasio motiva il suo distacco dalla rappresentazione tragica troppo realistica sulle condizioni di fatto di un «popolo» diverso e diversamente educato da quello a cui si rivolgeva Sofocle col Filottete. Del resto il suo tempo vide in questa sua contemporaneità e popolarità uno; dei suoi pregi piú alti ché, come dice l’anonimo biografo già citato (op. cit., p. 148), «la bellezza, l’eleganza deesi adattare al genio delle persone per cui si scrive e al gusto, qualor non sia depravato, del secolo in cui si scrive. Con tal mira sempre scriveva l’incomparabile nostro poeta, e per questo si è reso padrone de’ nostri cuori».

37 Naturalmente, specie nell’ultimo periodo in cui il Metastasio scriveva piú controvoglia e per superior commissione, non mancano effettive sciatterie e facilità librettistiche, ma ciò non si può dire delle opere piú sorvegliate e ispirate.

38 Per le minute preoccupazioni linguistiche del Metastasio si rileggano le lettere all’Algarotti del 27 ottobre 1746 (Opere, III, pp. 227-281) e del 1° dicembre dello stesso anno (Opere, III, pp. 281-288) in cui convergono, con estrema coerenza e sintomaticità, le esigenze contemporanee della «decenza», della comprensibilità, dell’eufonia, della sicura e pronta semanticità delle parole (a proposito di «molla» dell’«ingegno», osserva: «per assicurarmi io ne farei pruova leggendo il passo a persona non prevenuta, ed osserverei se la parola muove l’idea che si vuole, con la necessaria sollecitudine», p. 282), dell’armonia e convenienza della parole rispetto al contesto. Su tutto campeggia un’osservazione tipica del Metastasio e legata al suo stesso rapporto individuo-società in senso antiromantico ed arcadico: «cosí in questa come nella maggior parte delle costumanze civili, io credo impresa meno difficile l’accomodar me alla moltitudine che quella di disingannarla» (p. 280). Conformismo vile? o non piuttosto modo di adesione-interpretazione che permette poi al poeta «prudente» di immettere le sue novità in un tessuto concreto?

39 Per l’ironia del Metastasio sulla Crusca o «Tribunal della Semmola» si veda la lettera al Riva del 10 settembre 1732 (Opere, III, pp. 71-72).

40 Espressione simile a quella di altri arcadi, come il Maffei.

41 Circa la «comprensibilità» si ricordi l’ammirazione del Metastasio per i canti religiosi tedeschi scritti in una lingua che i fedeli «intendono» (lettera al fratello, 27 luglio 1750, Opere, III, p. 551). E per la chiarezza e comunicabilità ad ogni costo, si rilegga la lettera al fratello, 18 gennaio 1768 (Opere, IV, p. 595). «Le lingue non sono altro che istrumenti atti a trasportar nella mente degli altri le idee concepite nella nostra: onde fra due espressioni sempre è da preferirsi quella che meglio conseguisce il suo fine (purché non sia barbara o pedestre) all’altra piú elegante e pellegrina, ma meno retta e fedele. Con questo ragionevolissimo principio io ho procurato in tutti gli scritti miei di sfuggire l’oscurità e gli equivoci: ed a dispetto di questa perpetua cura non mi è sempre perfettamente riuscito: tanto è difficile il trasporto delle immagini dalla nostra all’altrui fantasia».

42 Ricordo, per esperienza personale, che le mie due nonne, educate in collegi «per nobili fanciulle» intorno al 1870, erano solite appoggiare riflessioni proprie con citazioni perfette di arie sentenziose del Metastasio!

43 Per il petrarchismo «esangue» ed affettato si veda la lettera all’Algarotti del 1° dicembre 1746 (Opere, III, p. 287) e per le due espressioni citate nel testo la lettera alla Pignatelli del 27 aprile 1761 (Opere, IV, p. 194). Per la sicurezza orgogliosa del Metastasio di essere totalmente lontano dal secentismo (e della lontananza ormai di tutta l’Italia da quella «peste») molto importante è la lettera all’Algarotti del 1° agosto 1751 (Opere, III, pp. 656-657). Un traduttore francese delle sue opere aveva accennato con compatimento a quella contaminazione della «scabbia dei concetti» che avrebbe toccato anche il Metastasio in quanto italiano. Il poeta rifiuta tale accusa per sé e per l’Italia riducendola a effetto di un contagio spagnolo nel Seicento («ma questa pianta straniera non allignò in guisa nel buon terreno d’Italia che non vi fosse anche nel tempo che essa fioriva, chi procurasse di estirparla») e dichiarandola oramai del tutto estinta da circa mezzo secolo: «Ed è poi palpabile che da un mezzo secolo in qua non v’è barcaiolo in Venezia, non fricti ciceris emptor in Roma, né uomo cosí idiota nell’ultima Calabria o nel centro della Sicilia, che non detesti, che non condanni, che non derida questa specie che si chiama fra noi secentismo».

44 Nella lettera al Caiafa del 17 aprile 1773 (Opere, V, p. 228) dichiara la sestina «a lui odiosa fin dalla mia infanzia alle lettere». «Essa è una faticosa puerile inezia da maritare con gli anagrammi, acrostici e cronografici, mette in ceppi la ragione, rende sterili le menti piú famose e in vece di quell’armonia seduttrice ch’è il fisico incantesimo della poesia, produce un noioso frastuono da scorticare le orecchie meno delicate».

45 Si veda la lettera all’Algarotti del 13 maggio 1747 (Opere, III, p. 303) in cui rifiuta la metafora dantesca delle «mani del cielo e della terra». «La metafora, a creder mio, dee condurre l’intelletto al positivo per la via di qualche viva e bella imagine e la povera mia fantasia è miseramente confusa quando intraprende d’attribuir le mani al cielo e alla terra, e il mio intelletto suda a dedurre da un’imagine cosí enorme il nudo senso dello scrittore». Si veda anche contro le metafore ardite e troppo nuove la lettera al Lazzaroni, gennaio 1764 (Opere, IV, pp. 332-333).

46 Si veda la lettera all’Alberti, 6 marzo 1769 (Opere, IV, pp. 715-716), in cui dichiara la sua scarsa simpatia per l’endecasillabo sciolto tanto prediletto dal Gravina. «Sia ragione o costume, il mio orecchio non si adatta facilmente a cotesta comoda libertà, che forse un poco di pigrizia ha raccomandato a qualche altro illustre Liceo della nostra Italia. È vero che la rima talvolta impedisce tirannicamente l’espressione de’ nostri pensieri; ma è vero altresí che ne suggerisce talvolta de’ piú luminosi e sublimi, a’ quali non sarebbe mai pervenuta la nostra mente senza il violento sforzo al quale la costringe e l’avvalora quell’angustia eccitatrice». Fa eccezione per le poesie didascaliche, pur aggiungendo che la «musica» è sempre essenziale alla poesia. E cosí ripete nelle lettere al Mattei (16 maggio 1776, Opere, V, p. 389) in cui si scaglia contro il versiscioltismo come «antiarmonica setta regnante» e aggiunge che quel «poco musico metro», «togliendo alla poesia il fisico incantesimo della rima magistralmente usata, riduce a scarsissimo numero quello de’ lettori; ed escludendone affatto il popolo, manca del piú sicuro mallevadore dell’immortalità».

47 Si veda il sonetto LII della prima parte delle Rime in cui ci si riferisce certo al melodramma di tipo metastasiano.

48 U. Foscolo, Saggi e discorsi critici, ed. naz. X, 2, a cura di C. Foligno, p. 252 (trad. Ugoni). Per altri giudizi foscoliani v. S. Romagnoli, op. cit., pp. 64-65. Durissimo è inoltre lo schema di giudizio sul Metastasio nei frammenti alla fine della lezione undicesima delle Epoche della lingua italiana (Saggio di letteratura italiana, ed. naz. XI, 1, a cura di C. Foligno, p. 257): «Perché impoverí la lingua, perché impoverí la Natura – perché ammollí i costumi – sua fama, prova della mollezza de’ tempi e de’ costumi, non merita del suo genio – anzi... dell’uso che fece del suo genio in danno dell’Italia». Notevole è anche, per capire la posizione storica foscoliana, il passo del Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia in cui giustifica l’eccessiva «asperità» del verso alfieriano come bisogno di raddrizzare l’albero della lingua italiana piegato verso la mollezza del Metastasio (Saggio di letteratura italiana cit., II, pp. 517-518).

49 Il linguaggio teatrale ha problemi diversi da lirici ad epici e deve avvicinarsi «quanto si possa senza avvilimento, al parlare naturale, che è quello della prosa». Lettera al Riva, 20 settembre 1732 (Opere, III, p. 76).